Lo scorso 20 gennaio il parlamento della Repubblica Centrafricana ha nominato presidente ad interim Catherine Samba-Panza, in sostituzione del dimissionario Michel Djotodia, al potere dal marzo 2013. Sessant’anni, un passato da donna d’affari e di recente sindaco della capitale Bangui, Samba-Panza ha il difficile compito di guidare il Paese verso le elezioni presidenziali previste per il primo trimestre 2015. Una missione che si presenta non semplice, considerata la guerra civile che sta insanguinando il Paese da un anno e che vede contrapposte, con alterne vicende, le milizie dei Seleka e degli Anti Balaka. A fare da sfondo alla crisi c’è la debole risposta della comunità internazionale e in particolare della Francia, il cui intervento sinora non è stato sufficiente a evitare l’escalation di violenza.
Fin dalla propria indipendenza datata 13 agosto 1960 la Repubblica Centrafricana ha vissuto fasi politiche travagliate, tra regimi dispotici e colpi di stato. Le prime elezioni politiche libere si sono tenute soltanto nel 1993 sotto la supervisione dell’ONU. In quell’occasione vinse Ange-Félix Patassé, che già aveva ricoperto ruoli istituzionali di rilievo durante la dittatura di Jean-Bédel Bokassa negli anni ‘70. Vincitore anche della tornata elettorale del 1999, Patassé ha visto però il proprio potere farsi sempre più instabile, minato alla base dalle ribellioni che nel 2001 hanno portato al tentato colpo di stato del generale François Bozizé. Quest’ultimo, dopo essere fuggito nel vicino Ciad per evitare la cattura, tornerà nel Paese l’anno successivo per riorganizzare la guerriglia che lo vedrà vincitore nel marzo 2003, quando riuscì a esautorare Patassé e prendere il controllo del governo. Dopo aver formalmente legittimato la presidenza vincendo le elezioni del 2005, Bozizé è stato il capo indiscusso della Repubblica Centrafricana fino a che all’orizzonte non è apparsa una nuova forza: quella costituita dai ribelli Seleka.
Le milizie Seleka
È grazie ai Seleka che Michel Djotoja è riuscito nella sua scalata alla conquista del potere. In seguito al fallimento dei negoziati di pace tra le opposizioni e i ribelli sempre più insofferenti al regime di Bozizè, i Seleka all’inizio del 2013 hanno infatti preso le armi e conquistato Bangui. Mentre François Bozizè fuggiva in Congo, il palazzo presidenziale veniva conquistato dagli insorti e il 25 marzo Djotodia si autoproclamava nuovo presidente della Repubblica Centrafricana.
Il movimento Seleka è un gruppo eterogeneo formato da più squadre di guerriglieri. È composto da un’alleanza (in lingua sango Seleka vuol dire proprio alleanza) tra i gruppi ribelli del Fronte Democratico per i Popoli dell’Africa Centrale (FDPC), la Convenzione dei Patrioti per la Giustizia e la Pace (CPJP) e l’Unione delle Forze Democratiche per l’Unità (UFDR), in cui sono presenti principalmente musulmani. Le milizie hanno poi incrementato le proprie file con la presenza di soldati jihadisti provenienti dai vicini Ciad e Sudan. I soldati islamici dopo aver assunto il controllo della capitale si sono abbandonati a violenze e saccheggi indiscriminati. Loro bersaglio sono stati religiosi cristiani e strutture come chiese e ospedali, ma non sono stati risparmiati anche civili occidentali che nel Paese hanno attività commerciali. Tra le vittime, anche alcuni soldati sudafricani impegnati nella capitale in una missione di peacekeeping per conto dell’Unione Africana.
L’intervento dell’ONU e le dimissioni di Djotodia
Di fronte all’escalation di violenze la comunità internazionale ha reagito, seppur non in modo tempestivo. Con le risoluzioni 2121 e 2127, approvate dal Consiglio di Sicurezza rispettivamente il 10 ottobre 2013 e il 5 dicembre 2013, l’ONU aveva chiesto il disarmo e lo scioglimento dei gruppi armati presenti nel Paese, lo svolgimento di elezioni legislative e presidenziali «libere, eque e trasparenti» entro 18 mesi dall’inizio del periodo di transizione come definito dalla Carta della Transizione entrata in vigore il 18 agosto 2013. Inoltre istituiva la Missione Internazionale di Sostegno nella Repubblica Centrafricana (MISCA), composta da soldati dell’Unione Africana, supportati da un contingente francese. Infine, affidava al BINUCA (l’Ufficio Integrato delle Nazioni Unite per il Consolidamento della pace nella RCA) il compito di assistere la fase di transizione politica verso le elezioni.
Considerate le pressioni internazionali e anche gli attriti con una parte dei militanti Seleka che gli avevano voltato le spalle, il presidente Djotodia il 10 gennaio scorso ha deciso di dimettersi. Nelle strade di Bangui centinaia di persone hanno manifestato il proprio entusiasmo di fronte alla notizia, ma chi riteneva che la situazione sarebbe presto migliorata si sbagliava. I militanti jihadisti, senza più l’appoggio presidenziale, si sono ritrovati allo sbando. Nel ritirarsi dalle città e dalle postazioni che occupavano, hanno lasciato spazio alle milizie animiste e cristiane degli Anti Balaka (anti machete, in sango) che in breve tempo hanno conquistato molti avamposti, sino ad acquisire il controllo effettivo sulla parte occidentale del Paese. Trovandosi in posizione predominante, hanno dato il via a un’operazione di pulizia etnica contro la popolazione musulmana inerme, colpevole, secondo i miliziani, di essere complice dei ribelli Seleka. Uno degli episodi più tragici è quello del villaggio di Bossemptele, dove il 18 gennaio scorso 100 civili musulmani sono stati trucidati dai guerriglieri. Secondo l’ong Human Rights Watch, l’intento degli Anti Balaka è proprio quello di eliminare la presenza musulmana (che costituisce il 15% della popolazione del Paese sui 4,5 milioni di abitanti totali).
Ma alla base del conflitto ci potrebbero essere cause più profonde e forte è il dubbio che la religione sia solo un pretesto. La RCA è uno dei Paesi più poveri del mondo ma il suo sottosuolo è ricco di giacimenti, in particolare diamanti ma anche oro e uranio. In gioco nel conflitto, quindi, non ci sarebbe solo la supremazia religiosa ma il controllo di tali ricchezze. Non è un caso che gli Anti Balaka, ad esempio, abbiano di recente assaltato una città come Yaloké, 200 km a Nord Ovest di Bangui, importante centro di commercio dell’oro estratto in quell’area.
Il difficile compito di Catherine Samba-Panza e gli interessi della Francia
Pochi giorni dopo le dimissioni di Djotodia, il parlamento centrafricano ha eletto come presidente ad interim Catherine Samba-Panza, che nel ballottaggio ha avuto la meglio su Desire Kolingba, figlio del dittatore che ha governato il Paese per 12 anni, dal 1981 al 1993. Il neo-eletto presidente in un’intervista all’emittente radiofonica France Inter ha chiesto alla Francia di non abbandonare il Paese. In risposta all’appello, il 28 febbraio il presidente francese François Hollande, in visita alle truppe francesi impegnate a Bangui nella missione di pace, ha ribadito l’impegno del proprio Paese affinché cessino le violenze e si apra la via del dialogo tra le forze ribelli.
La RCA ha per la Francia un’importanza strategica significativa, anche dopo la decolonizzazione i due Paesi hanno infatti mantenuto un solido legame, basta guardare la bilancia commerciale che vede la Francia come il principale partner per importazioni ed esportazioni. Le ricchezze nel sottosuolo del Paese, inoltre, rendono vitale un controllo diretto delle aree interessate per evitare ingerenze da parte di altre potenze come la Cina, i cui interessi economici in Africa costituiscono una spina nel fianco per l’Occidente. Proprio la Cina nel 2008 aveva acquistato dalla multinazionale del nucleare AREVA (di proprietà dello Stato francese) il 49% delle quote di UraMin, la società di estrazione che possiede la miniera di uranio di Bakouma. In quel periodo le aperture di François Bozizé verso Pechino devono aver destato più di una preoccupazione a Parigi. Un cablo risalente al 2009 dell’Ambasciatore statunitense pubblicato poi da Wikileaks rivela la “profonda frustrazione” dell’Ambasciatore francese a Bangui per l’atteggiamento del presidente, contestualmente proprio all’incremento delle operazioni commerciali dei cinesi nella RCA.
In quest’ottica assume rilevanza l’intervento francese per evitare ulteriori destabilizzazioni nel Paese. In ogni caso la strada per la risoluzione del conflitto non si presenta delle più agevoli. È necessario innanzitutto far rientrare al più presto gli sfollati nelle proprie case: secondo un rapporto di Amnesty International, nel corso di un anno circa 935.000 persone hanno lasciato le proprie abitazioni dall’inizio del conflitto. La situazione più drammatica è quella dell’aeroporto Mpoko, a poche miglia a nord-ovest di Bangui, dove migliaia di profughi si sono accampati per fuggire dalla guerriglia. Le condizioni igieniche precarie in cui si trovano, con accessi limitati a servizi igienici, cibo e acqua, espongono al rischio di epidemie le persone più deboli come bambini e anziani. L’operazione di rientro degli abitanti presenta delle difficoltà in quanto la paura di nuove violenze può essere difficile da rimuovere in chi ha ancora negli occhi i massacri dei miliziani. D’altro canto la messa in sicurezza dei villaggi evacuati non può dirsi ancora compiuta. Medici Senza Frontiere ha infatti denunciato il clima di terrore in cui vivono i civili, timorosi anche di spostarsi di poche centinaia di metri per raggiungere un ospedale a causa del rischio di attentati. Gli interventi di assistenza sono resi complicati dall’isolamento in cui si ritrovano alcune zone, come nel caso della prefettura di Bouar vicino al confine con il Camerun, dove una comunità musulmana di migliaia di persone è tagliata fuori dai soccorsi. L’intervento delle forze di peacekeeping non si è rivelato sufficiente, l’area Ovest del Paese dove gli Anti Balaka hanno il controllo totale infatti non è presidiata dalla missione. Se Samba-Panza riuscirà a essere il presidente di tutti e non governare invece un Paese unito sulla carta ma di fatto controllato dalla guerriglia locale, è quindi ancora tutto da vedere.
* Francesco Piscitelli, dottore in Scienze Politiche
fonti: Wikileaks, Public Library of US Diplomacy, 14 febbraio 2009
ONU, Consiglio di Sicurezza, Risoluzione 2123, 10 ottobre 2013
ONU, Consiglio di Sicurezza, Risoluzione 2127, 5 dicembre 2013
Amnesty International, Ethnic Cleansig and sectarian killings in the Central African Republic, 2014